Chi
si trovasse a transitare per le strade del centro storico, precisamente alle
spalle di Piazza Navona, potrebbe essere incuriosito da un'affiche dal fondo scuro
su cui spicca una corona: è uno dei simboli prediletti di Basquiat, l’artista
americano esposto sino al 30 luglio 2017 nelle sale storiche del Chiostro del Bramante con la mostra JEAN-MICHEL
BASQUIAT - New York City (Opere dalla Collezione Mugrabi).
Per questo spazio espositivo si tratta di un
ritorno. Era il 2002, e il Chiostro, che ha sempre avuto un occhio attento al
contemporaneo, ne faceva conoscere l’opera ad un pubblico romano curioso verso
quel giovane artista morto da poco più di un decennio a soli 27 anni.
Fu
una bella scoperta vedere un pezzo di vita americana a Roma, una città così imperniata di storia antica che per
trovare linguaggi simili bisognava aggirarsi nelle periferie o leggere le
cronache locali in cui si denunciavano atti di vandalismo sui muri. Sembrano
passati anni luce, e oggi possiamo ammirare la street art nei quartieri
“giovani” o assistere all’inaugurazione dei murales sul lungotevere del grandissimo
Kentridge, ma questa è un'altra storia, tanto per rubare le parole a Lucarelli.
Jean Michel
Basquiat
(1960-1987), dopo una tappa milanese approda nella Capitale con un centinaio di
opere pittoriche, disegni, ceramiche, serigrafie, tutti provenienti dalla collezione
dell’imprenditore Jose Mugrabi, oggi
quotate a prezzi esorbitanti ( soltanto un paio di settimane fa i giornali riportavano la notizia di una vendita all’asta
stimata tra i 14 e 18 milioni di sterline).
Cresciuto guardando i cartoni animati, i supereroi dei fumetti della
Marvel, stimolato dalle incursioni ai musei insieme alla madre, Basquiat sognava di fare il fumettista per poi scegliere
l’Arte. Le prime opere che incontriamo nelle sale ci proiettano subito in un
mondo dove espliciti si fanno i riferimenti a quei modelli di cui si riprendono
schemi e linguaggi: immagini incorniciate proprio come nelle strisce dei
cartoon (volti, aeroplani), figure dai
bordi vistosamente marcati e rigorosamente bidimensionali, colori forti, uso di simboli e di parole, e infine lettere ripetute
come anagrammi o cacofonie.
Non si tratta di reminiscenze delle avanguardie -anche se l’influenza del
dadaismo è innegabile- quanto di formulare un personalissima poetica di cultura di strada, di eroi moderni e di
sbandierato analfabetismo artistico.
Il linguaggio di Basquiat, già noto per le sue incursioni writer a New York
sotto l’acronimo SAMO, si affaccia al mondo dell’arte con un’esplorazione
visiva dove si mescolano colori brillanti, segni stilizzati, simboli di strada
(hobo) scritte con un linguaggio che spazia dall’improvvisazione del ritmo
musicale – le mescolanze del jazz e il ritmo dell’hip hop sono una componente
intrinseca della sua arte- ad una deliberata strategia compositiva.
Se ad un sguardo iniziale, le prime opere in successione nelle sale
sembrano espressioni di un puro divertimento -immagini di macchine stilizzate,volti
mostruosi, arti umani, collage- per le composizioni più complesse ci rendiamo
conto di avere di fronte un linguaggio a cui sfugge la chiave d’accesso. La
grammatica di Basquiat ci disorienta, ponendoci di fronte a lettere cancellate,
figure sbarrate, sovrapposizioni di colore in cui s’intravede una ridipintura; dunque
una narrazione in cui soltanto qua e là riusciamo a darne un senso logico.
Infatti, osservando le figure e, in particolare, le parole mescolate, si originano sensazioni che si mescolano alle
nostre conoscenze, È una memoria, come
quella umana, continuamente soggetta a cambiamenti e arricchimenti – evidente
nelle opere in cui il colore è ripassato sopra per cancellare lo strato sottostante
-. Non un universo ordinato, ma un caos, instabile ed ambiguo.
Nulla è in stasi, non le nostre idee e nemmeno la nostra memoria, sembra
voler dire l’artista con immagini fatte di attimi, di ricordi, d’intuizioni. Ma
quelle cancellature, quelle parole barrate non sono ripensamenti, impennate
creative, bensì assenza. La parola rimane visibile, ma è negata nella sua
funzione, segni al contempo funzionale e decorativo, costringendoci sia ad una pausa ( come in un ritmo musicale) sia
ad una ricerca di senso. Infine questa assenza diventa presenza.
Lontanissimo dal nonsense dadaista il
suo approccio è ricco di contenuti come quel continuo riferimento ai suoi eroi,
quegli atleti, quei musicisti e scrittori, quasi sempre di colore che anche la
storia ghettizzava. In opere come New York , New York (1981) o in Yellow
Tar and Feathers (1982) presente e passato si mescolano portanti alle
estreme conseguenze; una “memoria” immaginaria che fa da ideale contenitore di
tutte le memorie possibili, aprendosi dunque a differenti orizzonti temporali,
grazie alla forza evocativa.
Job Analisis (1983) si mostra davanti agli occhi dell’osservatore
come un mondo interiore , multiforme e terribilmente intricato: ancora fumetti
(bugs banny), accostati a spade inquietanti, simboli di protesta sindacale. È
il mondo dell’artista tutt’altro che infantile, capace di rivelare senza troppe
remore un abisso oscuro in cui si ha paura di perdere se stessi.
Prosegue una sala dedicata alle Collaborations, le opere a quattro mani, con
il genio di Andy Warhol, prima idolo
poi amico, dove i due dipingeranno insieme unendo il mondo Ribelle del primo a
quello Pop del secondo.
Il percorso della mostra al secondo piano è dedicato alle opere grafiche.
Su un fondo nero lavagna come disegnate da un gessetto, il cattivo scolaro
Basquiat ci mostra parti del corpo umano sezionate, soprattutto ossa,
rigorosamente affiancate alle parole che le definiscono.
L’interesse dell’artista verso l’anatomia risale al 1976, durante una
convalescenza, quando la madre, forse per aiutarlo a comprendere ciò che gli
stava accadendo, gli regala un libro di anatomia di Hanry Gray, affascinando quel bambino che crescendo affiancherà ad
esso l’"Artistic Anatomy" di Paul
Richer e i disegni di Leonardo da
Vinci.
Ed ecco le 18 serigrafie, esse riattingono a quegli stimoli infantili. Tuttavia,
se la memoria umana ha la funzione di
ordinare il mondo che ci circonda e dunque di aiutarci a relazionarci con esso,
qui Basquiat ci rimanda anche ad una memoria culturale fatta di graffiti rupestri,
di libri di studio e ancora ai murales; dunque quelle figure fantasma che sembrano fluttuare
su uno sfondo nero non alludono tanto ad
una vivisezione di una figura umana
scarnificata, ma quanto all’uccisione di una memoria storica che sembra perdere
il suo scopo.
Il Basquiat più intimo e forse più complesso emerge nei disegni, dove
ancora una volta è la scrittura a dominare o ancora in un omaggio all’arte di
Warhol con un casco in cui sono attaccati i veri capelli di Basquiat: arte e
vita si mescolano.
Chiude la mostra l’opera Gravestone del 1987, poco precedente la morte dell’artista e poetico
omaggio all’amico scomparso Andy Warhol. Una moderna lapide formata da tre
porte assemblate con cerniere su cui sono raffigurate una croce, un tulipano
nero, un teschio, un cuore, pennellate di colore è la scritta “deperibile”. A
fronte di un mondo esteriore caotico e governato dagli eccessi, ed un mondo
interiore lentamente soffocato, l’arte diventa urgenza, l’unico portatore di
vita e di morte insieme.
La storia di Basquiat, al di là del mito, è scritta sulle sue tele. Lì possiamo
rintracciare le sue memorie, i suoi supereroi, i suoi sogni e i suoi demoni; lì possiamo il suo timore di non essere
ricordato, il suo sacrificio ad una musa da cui tutto dipende e a cui tutto
ritorna, anche la vita.
Il Re è morto,viva il Re!
Moderno Icaro, Basquiat, si è bruciato con le sue ali di cera, ma ha
vissuto un sogno radioso come ci ricorda il pittore Giovanni Palmieri, che al sogno dei bimbi di diventare supereroi
per un giorno ha dedicato l’omaggio creativo di ricreare per loro il mondo di
Basquiat. E per questo, e per tanto altro, lo ringrazio infinitamente.
- Maria Rita Ursitti -