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lunedì 9 dicembre 2013

PATRICK FAIGENBAUM. Foto o quadro?




Non è un caso che il termine “quadro” sembri, almeno ad un primo sguardo, il termine più adatto per definire le opere fotografiche dell’artista francese Patrick Faigenbaum (1), attualmente  esposte nelle sale dell’Accademia di Francia (Villa Medici).

Il rapporto tra pittura e fotografia, fulcro di questa retrospettiva è, infatti, il nodo centrale di  una ricerca iniziata a Parigi alla fine degli anni Sessanta studiando  disegno e che ha visto Faigenbaum abbandonare  progressivamente “l’arte del cavalletto” per immergersi nell’esplorazione del linguaggio fotografico. Una separazione mai del tutto definitiva che, anzi, porta il bagaglio culturale del tableau (2) proprio dentro la fotografia. Sono gli stessi curatori dell’esposizione, il fotografo canadese Jeff Wall e, in particolare, lo storico dell’arte Jean- François Chevrier, noto per  il suo saggio, The Adventures of the Picture Form in the History of Photography (1989) a chiarire, attraverso l’opera di Faigenbaum, l’importanza teorica del tableau-fotografia nel dibatto degli anni Ottanta, quando la scelta del formato di grandi dimensioni non solo si connotava come volontà di allontanare il medium fotografico dal modello prettamente documentario, ma si prefiggeva di ridisegnare i confini della sua relazione con lo spazio espositivo e la sua modalità di fruizione (3).
Lungi dall’essere una semplice rivoluzione formale, il tableau-fotografia finisce con l’appropriarsi dei contenuti, del linguaggio e dei metodi di costruzione dell’immagine tipici della pittura.


Come si evince dalla lunga galleria di opere che si susseguono nella mostra, il veicolo privilegiato di questo work in progress per Faigenbaum, è sicuramente il ritratto, genere che negli anni Ottanta lo fa conoscere a livello internazionale soprattutto per una serie di lavori dedicati alle famiglie aristocratiche italiane. I vari membri della Famiglia del Drago, della Famiglia Massimo oppure i Riaro Sforza protagonisti di scatti in bianco e nero rigorosi nella posa e nella composizione vengono avvolti da un’atmosfera di assoluta immobilità che ci proietta in un tempo e in un luogo che mostrano uno scollamento dalla vita reale e sembrano rifarsi alla ritrattistica dei pittori fiamminghi del Rinascimento, in cui la realtà acquista una valenza simbolica, ogni oggetto rimanda a un altro significato, originando una straordinaria ricchezza di piani di lettura. La stessa immobilità  che, nonostante la nuova attenzione ai paesaggi urbani e ai loro abitanti e, l’evoluzione di una concezi  one del ritratto senz’altro teso a catturare la molteplicità, la dispersione delle città contemporanee, ritroviamo nelle fotografie degli anni Novanta di Brema e Praga.

Così, viaggiando sempre su diversi registri linguistici, il primo piano del volto della madre, Suzanne, indagato in ogni suo minimo dettaglio, con “uno sguardo quasi plastico“, può essere esposto tra la riproduzione della Testa di Tito  dei  Musei vaticani  e quella della Testa di Geta dei Musei Capitolini; così come una natura morta dal ‘sapore’ secentesco potrebbe appunto confondersi, ad una prima occhiata, con antichi dipinti che hanno per tema lo stesso soggetto, attraverso una sapiente operazione in cui molto spesso pittura e fotografia si mescolano fino al punto di risolversi l’una nell’altra.






(1) Patrick Faigenbaum  è nato a Parigi nel 1954 dove vive e lavora anche come Professore all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts. Dal 1985 al 1987 è stato borsista all’Accademia di Francia
(2) Termine francese per quadro (dipinto) usato soprattutto per riferirsi alla pittura da cavalletto.
(3) In questo senso Chevrier parla di opere “prodotte per il muro”[come i dipinti] come ad indicare un superamento nel  modo tradizionale del pubblico di fruire le immagini fotografiche solitamente “ricevute e ‘consumate’”. 



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